venerdì 17 luglio 2009

Una casa ideale


L’agente immobiliare è una donnona alta e robusta. Occhiali da sole giganti marca Rayban, sandali di plastica col tacco, fasciata in un vestitino di raso viola di evidente fattura cinese, fa una gran scena da lontano. Appena si avvicina ti rendi conto che faccio più figura io col mio vecchio prendisole comprato in un grande magazzino, i capelli arruffati e sudati e i Birkenstock vecchi di 4 anni.

Da queste parti è venuto Hemingway. Anzi, ci ha vissuto, proprio in queste case, quando erano ancora di proprietà di un barone suo amico, padrone di tutta la zona. Ci ha pure scritto un libro. Ma a me Hemingway non piace. Adesso ci sono io qui, insieme a Paolo, a suo fratello e alla moglie di suo fratello, per vedere una casa. Una casa nuova, una casa che potrebbe essere la nostra casa, dopo quasi dieci anni stipati insieme alle mie mille attività in un appartamento a Milano. Non avevo pensato mai di trasferirmi qui. Prima avevamo parlato di Marche, poi di Toscana, poi alto Lazio. E siamo finiti nel piatto, piattissimo, afoso Veneto. Ma Lorenzo, mio cognato, vuole trasferirsi qui e dato che fa il geometra e ama andar per case, già che cercava la sua, ha dato un’occhiata anche per noi. E ha fatto centro. Isolata, vicinissima al fiume…La posizione è ottima.

Peccato sia in Veneto, mi dico.

Fa un caldo terribile e neanche sotto l’enorme porticato si sta tanto meglio. Ma mia cognata dice di sentire molto più fresco. Mia cognata ha più di 50 anni e si esibisce in vestitini estivi che salgono ben oltre il ginocchio. Io ho appena compiuto 41 anni e mi faccio problemi a mettere gonne un po’ corte. Di tacchi alti praticamente non se ne parla, anche se ho appena comprato un paio di sandali che chiamo “i trampoli”. Chissà se li metterò mai. Ma si sa, è una questione di attitudine. Mia cognata ha l’aria di una che ne ha passate a sufficienza, anche se l’atteggiamento fisico è quello di una ragazzina un po’ sbruffona. Il colore dei suoi capelli è proprio strano, giallo con striature rosse, ma questa volta sembrano più in ordine di un mese fa, quando sparavano da tutte le parti. Lei e il fratello di Paolo stanno insieme da 20 anni, e sembra che vadano ancora d’accordo. Ieri hanno passato metà pomeriggio a massaggiarsi i piedi a vicenda mentre chiacchieravamo, una cosa imbarazzante. Mia cognata si arrampica sulla sedia da giardino e comincia a toccarsi i piedi, poi arriva suo marito e glieli massaggia. E io sono lì a guardare e penso che certe cose non le faccio mai in pubblico. Sono un tipo maledettamente per bene.

L’agente immobiliare (si chiama Leonilda) apre la porta dell’appartamento. Rimaniamo stupiti, è pieno di mobili, di cianfrusaglie, venute da chissà dove.“La proprietà ha permesso a degli amici di mettere delle cose in questi appartamenti, ma non immaginavo così tanta roba” dice Leonilda, sembra stupita ma non ha tono di scusa. C’è di tutto: cassettoni, specchi, ante d’armadio, giocattoli, un plastico di un “casone” con due barboncini di platica incollati sulla base di cartone, tricicli, una panchetta indiana di metallo che inizia e finisce con la testa di un elefante, completata da un cuscino azzurro. Mi chiedo chi cazzo possa averla comprata.

Per farsi perdonare Leonilda ci porta a vedere un altro degli appartamenti del complesso, anche quello in vendita, già abitato e con la stessa metratura. Usciamo sul vialetto e percorriamo qualche metro, entriamo da un cancelletto e ci troviamo coi piedi su una rosa dei venti fatta di minuscole piastrelle. Alla nostra sinistra un mega barbecue, alla nostra destra un finto pozzo con un’enorme sirena di pietra seduta sul bordo. Io vorrei già correre via. Invece entriamo. Nella struttura della vecchia cascina sembra che sia atterrata una tribù di alieni con i loro architetti: il divano e le sedie ricoperte in pelle sono bianchi; dal muro giallino spunta un pezzo di sasso finto, come un meteorite incastonato tra i mattoni. Il tavolo è di cristallo, come il tavolino da caffè e l’appendiabiti per i cappotti degli ospiti. Saliamo al piano superiore con una spaventosa scala senza corrimano, un vero affronto alla forza di gravità: le due camere da letto sono dipinte di rosso e blu scuro e da sopra la testata di ogni letto spunta la stessa meteorite del salotto. Miodio, miodio. Mi sento male. Usciamo, e noto che il proprietario ha fatto installare in salotto un camino hi-tech e tiene delle torce a gas per le serate con gli amici nel giardino con la sirena. Sono sorpresa che non ci siano Biancaneve e i sette nani dipinti d’argento o d’oro.

Mia cognata è il tipo che tratta il suo piccolo cane barboncino come una specie di figlio. Gli cucina il petto di pollo sulla piastra, si preoccupa perché non resti solo troppo a lungo, lo prende in braccio e dopo non si lava le mani. Un’altra cosa in cui sono molto per bene. I miei genitori mi hanno insegnato che gli animali per quanto puliti sono sporchi e per ribadire il concetto non me ne hanno mai preso uno. Salvo perdere la testa per un gatto poco prima che me ne andassi di casa.

Quando sono stata in Inghilterra ho conosciuto una donna che non solo prendeva in braccio il cane durante i pasti, gli faceva leccare il piatto quando aveva finito di mangiare. Uno schifo. Ai miei non l’ho mai raccontato. Ci dormiva col cane, quella lì. Dopo quello pensavo che sarei stata più malleabile con le misure igeniche.

La moglie del fratello di Paolo si accende una sigaretta. Mi sento male, penso di stare male. Dio uccidimi, ti prego uccidimi. Non credo in te, non credo nella tua bontà, ma se esisti uccidimi, non farmi affrontare il domani. Non farmi affrontare anche questo. Non farmi affrontare il resto della vita in mezzo a tutto questo. A queste persone. Lo so che sono buone, lo so che sono una stronza snob, ma non mi somigliano. Uccidimi ti prego, ora. Non mi ricordo più quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa per me e solo per me. Forse è stato quando mi sono licenziata dalla banca. E’ passato un mucchio di tempo. Potrei sparire. Potrei non farmi più vedere.

Ieri Paolo ha detto che quest’anno i turisti tedeschi saranno in aumento del 15 percento a causa della crisi. Tre volte in due ore. Alle stesse persone. Ha ripetuto storie dell’ufficio che ho ascoltato per la 500esima volta. Ormai so prevedere cosa dirà, come lo dirà. Mi sento male.

Saliamo in macchina, facciamo un giro nei dintorni della casa. Ci sono solo campi. Mia cognata è seduta dietro con me. Toglie i piedi dalle ciabatte di gomma e li appoggia dietro al sedile di Paolo. E ricomincia a toccarseli. Penso che dobbiamo mangiare a casa loro. Chissà se si laverà le mani prima di cucinare.

venerdì 10 luglio 2009

Falling to Pieces


A 41 anni ti sei più o meno resa conto che invecchierai. Anzi, stai già invecchiando: le prime rughe. La prima caduta della pelle. I capelli bianchi. Qualche sopracciglio bianco. Ci sono momenti in cui non sembra e momenti in cui è spaventosamente evidente. Le mani, lo vedi bene sulla pelle delle mani che sembra arrotolarsi sulle falangi. Mamma mia.
Le mie gambe diventeranno secche o enormi? I peli smetteranno di crescere?
Come mi vedrò quando avrò 45 anni? E a 50? Succederà un disastro? Oppure no? Il fatto di non aver avuto figli mi penalizzerà o favorirà a livello ormonale?
Le ossa cederanno? Mi ingobbirò? Le macchie brune della pelle, ce le avrò? Il mio corpo si disfacerà lentamente o tutto in una volta?
Sono pensieri che fanno paura, che mi terrorizza affrontare. E questo bombardamento di creme miracolose e natiche toniche mi terrorizza anche di più. Forse per questo non mi tingo neanche i capelli, sarebbe come riconoscere che sto invecchiando. Oppure far finta che non sia così, che forse è pure peggio.

giovedì 9 luglio 2009

David Devant and His Spirit Wife - I Think About You


Chi se lo ricorda?


Now get this clear
I'm being sincere
Your biggest fan
That also ran
Is not someone I fear
Read my mind
And what you find
Will help us leave the world behind


Ooh! Aah!
In the garden
With my famous purple heart on
Or the day we metThat's a day
I won't forget
In my romantic novel
You will call and I'll just grovel
You'll tie me up with chains
And pick my brains


I think about you (how much?)
Let me give you a clue
I think about you
I think about you (why's that?)
It's just something that I do
I think about you


No I'm not being funny
When I call you honey
It's from the heart
So play a part
In making my egg runny
Read my mind
And what you find
Will help us leave the world behind


Ooh! Aah!In the garden
With my famous purple heart on
Or the day we met
That's a day I won't forget
In my romantic novel
You will call and I will grovel
You'll tie me up with chains
Then come home andPick my brains out


My dog just died
My brain has fried
But I think about you
My car broke down
I had to run out of town
But I think about you
Oh I'm on holiday
Somewhere very far away
But I think about you...

On the day we met
But it's
it's not....finished....
yet....


I think about you
It's just something that I do
I think about you
I think about you
Do you think about it too?
I think about you....

Dottor Jeckyl e Mr Hide si lavano sempre le mani


Regola numero uno: mai guardare un film e leggere dopo il libro da cui è tratto. In genere rispetto questo dogma, ma nel caso di Fight Club le circostanze mi hanno costretta a violarlo. Perché non sapevo che il film fosse tratto da un libro quando sono andata a vederlo e perché d’altronde il film stesso funzionava così bene che non avevo mai pensato di leggere il libro.
Non è cosa da poco, tutto considerato: ad ogni pagina ti addentri nelle immagini del film e le facce dei personaggi protagonisti sono ormai quelle di Ed Norton e Brad Pitt.

Regola numero due: se siete arrabbiati e leggete questo libro, sarete ancora più arrabbiati, vi sentirete circondati dalla banalità, dalla quieta disperazione di una vita grigia e senza scopo, manipolati dalla televisione e immersi in una realtà in cui il vostro unico scopo deve essere apparire e consumare. Vi renderete conto di essere in trappola, più o meno dal momento in cui siete nati. Perché fingere in fondo? E’ così. E’ una consapevolezza che Chuck Palahniuk affronta ad ogni pagina e la vita che descrive il protagonista sembra la tua vita, chiuso in ufficio, a fare un lavoro che non ti piace, accettando compromessi su compromessi finchè è troppo tardi.

Regola numero tre: non c’è via d’uscita L’unica sarebbe la morte, invocata ripetutamente, senza pudore. Non avendo il coraggio di darsela, la morte si va a cercare dove si trova, nei gruppi di sostegno per i malati di cancro o di altre malattie terribili; e paradossalmente ci si avvicina alla vita vera, l’autentica sensazione di vivere. L’ombra che non esiste senza la luce e viceversa.
Da qui partono le avventure del protagonista del libro, due uomini con un solo nome, che però non si capisce mai fino a che punto sia quello vero. “Solo nella morte abbiamo un nome”.

Regola numero quattro: la paranoia, l’ insoddisfazione, crescono al punto di creare un’alternativa a quel mondo ovattato e finto di cui fai parte, basata sul brutto, lo sporco, il malato. Alla perfezione fisica opponi l’estetica di un decadimento forzato, le cicatrici, i lividi, i colli spezzati.
E rovesci in chiave nichilista l’essere nulla e l’essere tutto della nostra società: diventare niente per servire uno scopo di distruzione piuttosto che essere un numero per servire la produzione ed il consumo, annullarsi consapevolmente per essere, avere un nome solo quando ormai non si è più.

C’è una dose massiccia di teorie orientali e buddiste in tutto ciò, ben presenti anche nel film.
Questa può sembrare una lettura assai seria, ne convengo, ma c’è da dire che altrimenti questo potrebbe sembrare un romanzetto scritto da un allegro psicopatico, estremamente pericoloso per migliaia di adolescenti con tendenze suicide. In realtà dietro al divertimento ed al cinismo c’è il riconoscimento senza paura del lato comico della tragedia, dei nostri istinti autolesionisti, qualcosa che teniamo chiuso dentro la nostra testa e che non abbiamo il coraggio di confessare a nessuno, neanche al compagno/a, pena un rimprovero o un commento sconcertato.
In un mondo dove si uccide per un parcheggio non è bello riconoscere lucidamente che forse non siamo sempre tanto contenti di essere vivi e al di là di questo neanche ci troviamo un senso ad esserlo.

mercoledì 1 luglio 2009

Sorridi Bruce!














Ma che gli è successo? Da un paio di album in qua le foto di Bruce pubblicate sulle riviste non sono quelle di uno splendido cinquantenne che anche se toppa un disco si rialza e ricomincia a suonare, ma quelle di un cane bastonato o un gigantesco bambino imbronciato.

La copertina di Vanity Fair di qualche settimana fa mi aveva già deluso un pò. Ma poi aprendo il giornale stesso, ho scoperto foto ancora più deprimenti...Saranno i fotografi ("Più tristezza Bruce, un pò di desolazione, ecco...")? O lui è stufo di farsi fotografare?

Almeno un sorrisino a denti stretti...