sabato 28 marzo 2009

Watchmen il fumetto, Watchmen il film (Grazie Cosmic)


Da anni non leggo fumetti; ho studiato per diventare disegnatrice, ricordo che era il sogno della mia vita, ma com’è come non è alla fine non solo non ho realizzato quel sogno, ho perso interesse per i fumetti. Beh, almeno quelli “seri”, quelli di avventura. E più ne sto lontana più forti hanno da essere le storie per invogliarmi a prendere in mano un volume di nuvole parlanti.

“Watchmen” è un’opera magnifica, complessa, allucinogena, in cui la terra, il sangue e il cielo si accoppiano incessantemente rigenerandosi infinitamente attraverso i personaggi protagonisti.
La storia (ma non l’azione) inizia negli anni 40 con un gruppo di vigilanti mascherati, i Minutemen. Visti col senno di poi appaiono alquanto ingenui, ma non lo sono affatto e vengono illustrati in tutta la loro umanità: la maschera serve a nasconderli, più che a proteggerli, sotto di essa si celano debolezze, segreti e perversioni e appare chiaro che il confine tra l’essere un eroe ed essere un criminale, per alcuni di loro è molto sottile.
Il tempo passa, alcuni si ritirano, alcuni scompaiono inghiottiti dal nulla, altri si alleano coi servizi segreti Americani: è finita l’età dell’innocenza e con la comparsa di un superuomo di nome Dottor Manhattan, anche quella dei semplici eroi. Ma qualcuno c’è ancora, qualcuno come Rorschach che con la sua sola abilità fisica, la propria astuzia e desolazione psicologica persegue molto personalmente il fine della GIUSTIZIA.

Difficile andare oltre nella descrizione degli eventi, sia per la complessità sia perché non sarebbe carino rovinare la sorpresa a chi ancora non l’abbia letto.
Posso raccontarvi però del mio personaggio preferito, Rorschach, appunto. Sulla carta è insopportabile: fascista, reazionario, rigido come un pezzo di legno. Ma ti prende, da subito, ti affascina e non vedi l’ora che l’azione si sposti su di lui. Con il suo passato doloroso, la vita squallida che lui stesso rifiuta rifugiandosi dietro alla sua faccia bianca e nera, Rorschach è l’eroe più popolare (non in senso di celebrità), il gradino più basso nella scala dei Watchmen. E’ lui la terra, colui che ragiona con l’istinto primario, il primo chackra. E’ quello che vede a due dimensioni, a due colori, bianco e nero appunto, irragionevole, infantile e privo di compromessi. Ha visto ciò che tutti si rifiutano di vedere e non sa metterlo da parte per vivere in modo “decente”.
Appena sopra di lui sta Il Comico, una vera carogna. Anche lui ha capito quanto sia brutale il mondo ed inutile l’idea dell’eroe senza macchia e senza paura. Dunque, come un Kurtz in calzamaglia si è tuffato nell’orrore e se lo è fatto amico con il suo sense of humour.
Vengono poi Laurie (figlia di Silk Spectre e compagna del Dottor Manhattan) e Night Owl, un “uomo della strada” che cerca di rendersi utile e di non ricorrere alla violenza se non è strettamente necessario. Loro sono i borghesi, i middle class che credono ingenuamente che ci sia un modo lecito per portare la giustizia nel mondo.
E poi, sempre più in alto nella scala, Ozymandias, l’uomo più intelligente del mondo, un super miliardario che si ispira alla grandezza dei Faraoni e al vertice di questa sorta di piramide il Dottor Manhattan, un uomo che uomo non è più: vede nel futuro e nella materia, che può modificare a piacimento. Pur presente agli occhi degli umani egli sembra vivere in molteplici dimensioni contemporaneamente, e percepire la nostra più o meno come un’interferenza nel suo campo visivo. Al pari di un mistico tutto ciò che per noi è capitale a lui appare lontano e di risibile importanza.

Saranno proprio Ozymandias e Dr Manhattan a decidere del futuro del pianeta, in un gioco, anzi, in uno scherzo spaventoso che inorridisce eppure funziona.

Ad un gruppo tanto eterogeneo ed originale di personalità si possono affibbiare decine di letture: critica sociale o evoluzione spirituale, storica (la vicenda si svolge in un tempo alternativo al nostro in cui il presidente degli Stati Uniti -per la terza o quarta volta!- è Richard Nixon), politica, psicologica.
Le vicende e i dolori di ognuno vengono a galla e toccano irrimediabilmente le vite di persone comuni, di comprimari che sfiorano appena o che ci vanno di mezzo con tutte le scarpe.

Alan Moore è geniale a tenere le fila di tanta materia e riuscire a portare a compimento la missione dei Watchmen passando dalla violenza urbana al misticismo, alla pura psichedelica. Dave Gibbons con i suoi disegni tiene testa a tanto sceneggiatore, ma il geniaccio è lui, che riesce a concepire un’opera veramente faraonica, dura, emozionante e che non regala (grazie ancora) uno scontato lieto fine.

Alla luce di tanta meraviglia riuscire a cavarne una pellicola cinematografica pare un’impresa. Capita a volte, con scrittori come Ellroy o Lansdale di pensare “Cazzo, che bel libro, sembra di leggere un film”, solo che poi ripensandoci, è semplicemente impossibile senza tagliare e modificare un sacco di cose. Oltretutto il cinema fumettoso corre continuamente il rischio di cadere nella citazione del cartaceo, rischiando di diventare gustoso solo per chi già conosce la storia.

Forse gli autori del film “Watchmen” (tra cui lo stesso Moore che pare abbia poi rinnegato la sua creatura di celluloide) si sono illusi di potercela fare.
E hanno sbagliato. Nonostante gli sforzi e alcune trovate apprezzabili solo il vero fan riesce a godere in modo onanistico delle vicende dei nostri eroi sul grande schermo.

Inutile ripetere la trama, identica al fumetto: hanno provato a metterci il più possibile, ma nelle due ore e quaranta di durata si riesce appena ad intuire la potenza delle pagine disegnate: le sofferenze dei Watchmen vengono accennate, ma non si va a fondo. Non capiremo mai perché Rorschach è diventato quello che è, qual è il dramma del Comico e quello di Silk Spectre.
Ci sono citazioni letterali delle battute del libro, ma chi non lo ha letto non prova alcun brivido.

Anche a livello visivo si osa relativamente poco: la sigla di testa è molto bella, molto fumettosa, accompagnata brillantemente da “The times they are a-changin’” di Bob Dylan.

Si sarebbero potute fare cose incredibili, mi immagino il Comico sprofondato in un colore che vira al bianco e nero, o Rorscharch che si muove in un universo seppia dalla fotografia sporca, tutto camera a mano…Invece non ci sono trovate visivamente forti; alcuni brani musicali classici sono ben inseriti in alcune scene topiche (con l’eccezione dell’ “Halleluja” di Leonard Cohen, colonna sonora di una scena d’amore che con tutto quello che c’è da raccontare sembra togliere spazio alla storia) ma non è abbastanza.
Le scene di lotta fanno molto “Matrix” e sicuramente l’amante del videogioco e del fumetto supereroistico ci sguazzerà. Forse il problema è proprio che il film pare indirizzato ai fan più giovani, mentre gli argomenti trattati sono ben più complessi e affascinanti.

Intendiamoci, non è proprio disprezzabile come film, ma una storia del genere avrebbe meritato una sceneggiatura e una regia senza compromessi, più audaci e visionarie. Personalmente avrei applicato il Metodo Kubrick, ovvero prendi ciò che ti interessa evidenziare ed estremizzalo al massimo.
Mi viene in mente il Batman di Tim Burton, che è riuscito a far suo il personaggio del capo crociato, sarebbe stato bello fare altrettanto con i Watchmen.
Insomma, un’occasione sprecata…peccato, peccato…
Se non l’avete ancora fatto leggete il libro.

lunedì 16 marzo 2009

Una C60: introduzione ragionata


Perchè una volta c'erano le cassette. Io usavo TDK al cromo da 60 o al massimo da 74, giacchè quelle da 90 affaticavano troppo le bobine dell'autoradio o fiaccavano precocemente le batterie del walkmen.

Credo sia stato un percorso naturale per tutti i musicofili, subliminato poi dalla bibbia Alta Fedeltà (il libro): appena accumulato un numero minimo di vinili, si partiva a creare. Le prime compilazioni erano le migliori, le più studiate. Estrema cura alla fine di un pezzo e a come cominciava quello a seguire. Due-tre pezzi tirati e poi un lento. La mia parola d'ordine, da un certo momento in poi è sempre stata diversificare. Col passare del tempo sempre meno cassette monografiche (quella classica era a tema heavy metal), e sempre più commistioni tra generi. Una pratica pericolosa, ma prodiga di grandi soddisfazioni se fatta con dovizia.

Con il p2p è venuto meno il romanticismo dietro alla compilation, l'esclusività della produzione (ancora oggi ricordo con innocenza la mia reazione sbigottita di fronte a chi mi spiegava che l'emmepitre non era un supporto reale - tipo vinile, ciddì o floppy, come pensavo io - ma un file. Cazzo. Un file. Cioè niente. ), il nome delle raccolte si è fatto più trendy (playlist) e sono nate diverse riviste che campano compilandone a pacchi e dandole in pasto ai lettori. Senza sforzo e senza sentimento.

Comunque non ho mai smesso di preparare raccoltone. Certo, oramai rappresentano quasi esclusivamente uno sfogo onanista, le compilo cioè molto spesso per uso personale.

Una volta dire ad una persona dell'altro sesso: "ti preparo una cassetta?", era una domanda densa di significati, una speranza che cercava una breccia, uno squarcio che apriva una panoramica sulle proprie passioni, un mostrarsi senza inibizioni. E che errore epocale commettevano quelli che sputtanavano la loro chance con una prevedibile C90 tutta di lenti ! Era come cercare di infilare la mano in mezzo alle cosce di una ragazza al primo secondo del primo appuntamento...

La compilazione di una cassetta è un'arte nobile. Innocente come può esserlo il massaggio ai piedi della moglie di Marcelus Wallace in Pulp Fiction, insomma, se ne prepari una è perchè quantomeno tieni al destinatario della tua ispirazione. Sempre in Alta Fedeltà, quando la donna del protagonista lo vede seduto a terra tra i dischi sparpagliati, intento a mettere in sequenza i titoli delle canzoni su di un foglio di carta, nella preview di quello che sarà la sua compilation, e successivamente scopre che sta preparando la cassetta per un'altra donna si offende a morte. Giustamente. Perchè lei sa. Perchè prima lui le preparava per lei e adesso da un pezzo non lo fa più. E' di quanto di più simile ad un tradimento, se perpetrato da parte di un music victim.

Ecco, tutta questa elucubrazione mentale da dinosauro mi serve da premessa per le compilazioni musicali che da qui in avanti cercherò di postare con regolarità. Titolo dei post sarà: Una C60.

Accendete i vostri audiotape, rispolverate i walkmen, prendete la macchina del babbo, che di certo ha ancora l'autoradio a cassette. Si va a cominciare.

mercoledì 11 marzo 2009

IL CORPO (The Wrestler)

Prima di tutto lo shock: per chi come me ha visto negli anni 80 le donne impazzire per Mickey Rourke, le 9 settimane e ½, gli anni del dragone etc., rivederlo così è una bella botta.
Quando riesci a scacciare quell’immagine rimani col suo corpo (enorme ormai), che è il vero protagonista del film: cadente, flagellato, maciullato, sbattuto a destra e a sinistra. Tagliato e ricucito innumerevoli volte, un corpo quasi da Cristo dei nostri giorni (lettura molto trasversale, ma suggerita)che attraversa tutte le stazioni della sua via crucis. Il corpo di Randy The Ram lo porta alla gloria, lo fa cadere, gli dà la possibilità di ritentare ancora e ancora e infine di decidere del proprio destino.
La sua faccia è come una bisteccona che non cambia quasi espressione, ma che importanza ha la faccia di un wrestler? I tagli, i lividi, le cicatrici dicono tutto, il dolore, la speranza e la rabbia.

Randy trascina il suo corpaccione in una vita singolare, a metà fra la gloria e l’amore incondizionato dei fan e la sopravvivenza quotidiana. Per quanto squallido possa sembrare l’ambiente del wrestling professionista (molto ben descritto a mio parere) è carico di energia molto migliore della vita di tutti i giorni, dei lavori a pochi dollari, dell’ostilità delle persone “regolari”, dello squallore e della routine che diventano abitudine irrinunciabile. Quando non ne può più è ancora sul proprio corpo che fa affidamento per sfuggire a queste trappole.
Attraverso il dolore fisico la sofferenza della solitudine e del fallimento degli affetti diventano più sopportabili. Veder guarire le ferite della carne ci illude di rimarginare anche quelle dell'anima.

Lo stile da documentario, col protagonista seguito dalla cinepresa che lo riprende spesso di spalle demolisce ogni tentativo di epica e rende ancora più commovente questo personaggio. Qualche faciloneria della sceneggiatura non basta a limitare l’emozione trasmessa da questa storia e questo attore.
La pubblicistica punta moltissimo sul parallelo tra l’interprete e il personaggio, ma non per un secondo della proiezione Randy The Ram mi ha fatto venire in mente Mickey Rourke, e questo per me è il segno di una grandiosa interpretazione, come davvero non mi aspettavo…