giovedì 9 luglio 2009

Dottor Jeckyl e Mr Hide si lavano sempre le mani


Regola numero uno: mai guardare un film e leggere dopo il libro da cui è tratto. In genere rispetto questo dogma, ma nel caso di Fight Club le circostanze mi hanno costretta a violarlo. Perché non sapevo che il film fosse tratto da un libro quando sono andata a vederlo e perché d’altronde il film stesso funzionava così bene che non avevo mai pensato di leggere il libro.
Non è cosa da poco, tutto considerato: ad ogni pagina ti addentri nelle immagini del film e le facce dei personaggi protagonisti sono ormai quelle di Ed Norton e Brad Pitt.

Regola numero due: se siete arrabbiati e leggete questo libro, sarete ancora più arrabbiati, vi sentirete circondati dalla banalità, dalla quieta disperazione di una vita grigia e senza scopo, manipolati dalla televisione e immersi in una realtà in cui il vostro unico scopo deve essere apparire e consumare. Vi renderete conto di essere in trappola, più o meno dal momento in cui siete nati. Perché fingere in fondo? E’ così. E’ una consapevolezza che Chuck Palahniuk affronta ad ogni pagina e la vita che descrive il protagonista sembra la tua vita, chiuso in ufficio, a fare un lavoro che non ti piace, accettando compromessi su compromessi finchè è troppo tardi.

Regola numero tre: non c’è via d’uscita L’unica sarebbe la morte, invocata ripetutamente, senza pudore. Non avendo il coraggio di darsela, la morte si va a cercare dove si trova, nei gruppi di sostegno per i malati di cancro o di altre malattie terribili; e paradossalmente ci si avvicina alla vita vera, l’autentica sensazione di vivere. L’ombra che non esiste senza la luce e viceversa.
Da qui partono le avventure del protagonista del libro, due uomini con un solo nome, che però non si capisce mai fino a che punto sia quello vero. “Solo nella morte abbiamo un nome”.

Regola numero quattro: la paranoia, l’ insoddisfazione, crescono al punto di creare un’alternativa a quel mondo ovattato e finto di cui fai parte, basata sul brutto, lo sporco, il malato. Alla perfezione fisica opponi l’estetica di un decadimento forzato, le cicatrici, i lividi, i colli spezzati.
E rovesci in chiave nichilista l’essere nulla e l’essere tutto della nostra società: diventare niente per servire uno scopo di distruzione piuttosto che essere un numero per servire la produzione ed il consumo, annullarsi consapevolmente per essere, avere un nome solo quando ormai non si è più.

C’è una dose massiccia di teorie orientali e buddiste in tutto ciò, ben presenti anche nel film.
Questa può sembrare una lettura assai seria, ne convengo, ma c’è da dire che altrimenti questo potrebbe sembrare un romanzetto scritto da un allegro psicopatico, estremamente pericoloso per migliaia di adolescenti con tendenze suicide. In realtà dietro al divertimento ed al cinismo c’è il riconoscimento senza paura del lato comico della tragedia, dei nostri istinti autolesionisti, qualcosa che teniamo chiuso dentro la nostra testa e che non abbiamo il coraggio di confessare a nessuno, neanche al compagno/a, pena un rimprovero o un commento sconcertato.
In un mondo dove si uccide per un parcheggio non è bello riconoscere lucidamente che forse non siamo sempre tanto contenti di essere vivi e al di là di questo neanche ci troviamo un senso ad esserlo.

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